ATTITUDINE CRITICA - di Fabio Barilari

Sostanza del contemporaneo

Nel secondo anno di Facoltà, avevo una professoressa che pretendeva che tutti i mattoncini dell’isolato che stavamo progettando venissero disegnati con riga e squadra. C’erano i retini, allora: una specie di adesivi (una spiegazione per i giovani, questa) che diventavano parte del disegno a china. I retini servivano ad evitare di dover disegnare i mattoncini a mano. Erano stati inventati per quello. Non so quale trauma le avessero causato i retini. Qualcosa che l’aveva fatta soffrire molto, immagino.

“Questo edificio piacerebbe a Bruno Zevi” mi disse durante l’esame, dandomi un voto basso.

Credo fosse 24 o 25: era un brutto voto per un progetto, sebbene abbia sempre pensato che nella Facoltà di Architettura si debba poter bocciare in quello che è l’esame più importante. Quindi, onestamente, se fossi stato al suo posto, mi sarei bocciato.

Fatto sta che la sentenza finale fu che il mio progetto sarebbe piaciuto a Bruno Zevi e meritava un brutto voto. Mi disse anche che non sapevo disegnare, perché credo fosse rimasta un po’ delusa dai miei mattoncini. In effetti in quel periodo avevo cominciato a leggere Saper vedere l’architettura e, in tutta onestà, non riuscii a cogliere in pieno la componente negativa di quella considerazione, come lei avrebbe (credo) desiderato e penso di averla delusa un po’ anche per questo.

Con la lettura di quel libro - lettura casuale, perché lo trovai usato, in giro - per la prima volta Michelangelo, Bramante, Alberti, scendevano dall’Olimpo e sedevano accanto a Wright, Le Corbusier, Aalto, e tutti si confrontavano e dialogavano tra loro, alla pari.

Quindi parto dalla fine, come suggerisce Prestinenza Puglisi, anche perché Zevi è entrato nel mio mondo nella seconda metà degli anni ’80, mentre frequentavo l’Università.

Per questo, è anche un fatto generazionale, il mio.

Nella Facoltà a Roma, proliferavano cappelle funerarie spacciate per abitazioni e casette per le bambole vendute per interventi integrati nella città storica; residenze popolari che assomigliavano un po’ troppo a edifici carcerari, case per anziani a colombari e scuole per bambini a crematori. E tante lesene, colonnine, simmetrie, capitelli, trabeazioni, cornicioni, ordini, fregi. Tutto spacciato per rapporto con la storia.

Per comprendere bene il contesto nel quale collocare “l’ultimo periodo di Zevi”, una lettura interessante a mio avviso è un numero di AD del 1989: My ideology is better than yours - Peter Eisenman versus Leon Krier (Architectural Design, Reconstruction Deconstruction. Peter Eisenman versus Leon Krier - copyright 1989, pubblicato nell’aprile del 1990). Si tratta della trascrizione di un confronto tra i due, corredata da ottime immagini. Tornando a Wright seduto accanto a Michelangelo: non è scontato.

Chi comincia a studiare architettura, inizialmente porta con sé il modo di vedere l’arte, l’architettura e i suoi protagonisti, dal mondo esterno alla nostra professione e in quel mondo Michelangelo sta seduto su un trono nell’Olimpo, distante dagli umani, alla destra di Zeus, o comunque lì vicino.

Con quel libro però, l’attenzione veniva drasticamente spostata dalla dimensione storico-artistica a quella spaziale: tutta la narrazione era impostata sulla spiegazione, descrizione e confronto di una sequenza di spazi dal valore assoluto, ciascuno pienamente rappresentativo dell’epoca in cui era nato.

Lo spazio è una dimensione intangibile, ma Zevi riusciva a dargli sostanza.

Ora, tornando ai mattoncini e alle lesene, leggere quel libro metteva un poco in secondo piano quel genere di esigenze, mentre apriva letteralmente la mente su questioni come, appunto, la percezione e soprattutto, per chi aspirava a fare il progettista, l’invenzione spaziale. Saper vedere l’architettura era (è) uno di quei testi, una di quelle porte, che una volta aperte non si possono richiudere né ti permettono più di tornare indietro. Non è solo per ciò che ti fa comprendere, ma anche per il modo in cui te lo spiega. E poi, di conseguenza, da quel momento diventava (diventa) una specie di unità di misura nella valutazione di ciò che ti veniva (viene) insegnato in Facoltà o nei successivi sviluppi professionali.

Solo che non è che venisse citato spesso, in Facoltà, in quegli anni. Anzi, lo ricordo a malapena citato. Intendiamoci, ho avuto la fortuna di incontrare almeno un paio di professori eccezionali lungo il percorso universitario, ma il problema era la scena critica più ampia nella quale si muoveva tutto. Allora, con la lettura casuale di quel libro, mi resi anche conto che probabilmente era il caso che mi attrezzassi da solo per comprendere e distinguere quello che valeva da quello che non valeva, tra quanto ci veniva raccontato e - forse ancora di più - tra tutto quello che veniva omesso.

Insomma, in quegli anni occorrevano anticorpi e Zevi coagulava attorno a sé una buona parte di quelle proteine necessarie a comprendere la materia che stavo studiando e lasciare fuori le voci inutili o fuori strada.

In questo contesto, a un certo punto, cominciarono a circolare i quadri bellissimi di Zaha Hadid; i plastici grezzi in cartoncino, retina metallica e pezzi di legno di Gehry; i disegni raffinati di Libeskind; gli scarabocchi di Coop Himmelb(l)au. E assieme a loro alcuni primi edifici costruiti che traducevano almeno qualcosa di quelle ricerche indecifrabili in realtà concreta. Ad un certo punto esplosero architetti la cui lettura non poteva più essere banale, semplicistica e immediata come per le casette a forma di cappella funeraria.

I quadri di Zaha Hadid erano illeggibili, letteralmente intraducibili. Erano un linguaggio che proveniva da un altro pianeta. E lo stesso era per un progetto realizzato come l’attico di Falkestrasse di Coop Himmelb(l)au a Vienna. E facevi anche fatica ad andare a cercare i loro progetti e fotocopiarli, perché era molto prima di Zuckerberg e delle mail (sì, è esistito un mondo, pochi anni fa, privo di mail).

Quei lavori ti mettevano all’angolo: o continuavi a semplificare, rifiutandoli in quanto non comprensibili e ti rimettevi a disegnare i mattoncini, oppure accettavi la sfida (perché di quello si trattava) ed eri costretto a studiarli, ad approfondirli cercando di comprendere da dove nascessero, come dovessero essere interpretati, quali valenze architettoniche avessero, quali potenziali architetture portassero con loro.

Se appartenevi a questo secondo gruppo, il percorso diventava faticoso in Facoltà, però ti si apriva davanti una miniera d’oro: scoprivi che nessuno ti aveva mai raccontato di Alvin Boyarsky e tutto ciò che grazie a lui stava accadendo da anni all’Architectural Association; nessuno ti aveva raccontato della Bartlett di Peter Cook o la Cooper Union di John Hejduk; o ancora la SCI-Arc di Michael Rotondi e Thom Mayne.

Più cercavi e più trovavi.

Come era possibile che in anni di facoltà praticamente nessuno avesse mai nominato quelle ricerche?

Allora comprendevi che qualcosa non andava per il verso giusto lì dentro e le tue ricerche e i tuoi interessi te li dovevi cercare e coltivare fuori. Perché, se sei appassionato di quello che stai studiando e navighi in un contesto asfittico, tutte quelle ricerche andavano ben oltre l’interesse professionale e offrivano un po’ di ossigeno da respirare.

La realtà è che c’erano scuole intere, le più avanzate nel mondo, che molto semplicemente facevano ricerca. Di conseguenza c’erano architetti le cui ricerche spaziali e formali erano più avanzate. Per questo il “Decostruttivismo” non era nulla: la necessità di incasellare tutto in un ennesimo “-ismo”, lasciava il tempo che trovava (come fai a mettere nella stessa scatola Koolhaas e Behnisch?) e credo interessasse più a chi denigrava quelle ricerche che non a chi incominciò ad approfondirle.

“[...] I tavoli da disegno vanno al macero, perché quel disegno non serve più; giganteschi falò di righe a T, squadre, tecnigrafi, compassi liberano gli studi professionali. Si lavora con il computer che ignora la linea dritta, il parallelismo, l’angolo retto, l’uniformità e lo standard [...]. La nuova architettura incarna la democrazia, giustizia e libertà, il liberalsocialismo con le sue contraddizioni, la sua cacofonia, la sua affabilità al caos”. (Bruno Zevi, 1995)

Un po’ altisonante, forse, ma tutto questo Zevi lo esprimeva nel 1995. Quasi 50 anni dopo Saper vedere l’architettura.

Arrivò l’informatica e, al contrario, ’Buttate i vostri computer’ fu lo slogan lungimirante sulla tavola di una mostra in quel periodo. Ancora all’inizio degli anni 2000, quando insegnavo lì dentro, troppi colleghi pretendevano che gli studenti disegnassero le prospettive a mano: era il trauma del mattoncino in chiave 2.0, ma non era più un mio problema: io a quel punto stavo dall’altra parte della cattedra.

La verità è che la dimensione di Zevi, sul piano culturale e umano, è stata tale da non poter essere nascosta e neppure messa in secondo piano, per quanto si tentasse e fosse proprio questa l’aria che si respirava in quegli anni. Cosa che chiaramente non vuol dire dover accettare tutto, della lettura di Zevi, ma che richiede e impone una complessità nell’analisi della sua lezione così come delle architetture che portava come riferimento. Chi ha bisogno di semplificare, non riesce a cogliere e accettare tutto ciò che di eccezionale ha rappresentato Zevi nella nostra professione, inclusa la possibilità di critica di quelle parti del suo discorso che non convincono.

Ma la dimensione assoluta del valore del suo insegnamento sta proprio nell’attitudine critica che ha trasmesso.

Per tutte queste ragioni concordo con Prestinenza Puglisi quando sostiene che una lettura sana di Bruno Zevi possa essere solamente quella che parte dalla fine del suo pensiero e va a ritroso, perché quella libertà espressiva che finalmente arrivò in modo un po’ carbonaro, sottobanco, in Facoltà, era perfettamente allineata con tutto ciò che Zevi aveva continuato a promuovere durante gli anni bui dei mattoncini e delle lesene disegnati a mano.

E quando si parla di eredità, vanno considerate due parti, chi la lascia e chi la riceve: questi disegni di architetture raccontano quello che è arrivato a me di quell’eredità. Una piccola parte, in realtà, di quello che mi è arrivato. E rappresentano anche un mio debito di riconoscenza, personale.

Dovrebbero parlare da soli: dopo tutto il disegno è più antico della parola scritta anche se spesso lo dimentichiamo. Molti di questi progetti hanno instaurato un rapporto con il contesto storico nel quale sono inseriti, molto più profondo e articolato, perché dialogano alla pari: non per imitazione, ma per confronto. Come Wright con Michelangelo.

Autore: Fabio Barilari

In Copertina: 
Fabio Barilari
Günther Domenig,
Documentation Center Nazi Party Rally Grounds, Nuremberg, 1998-2001
© Fabio Barilari
Disegno
Drawing

 

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