AR 119 / Tematica

di Daniel Modigliani
Architetto e Urbanista, Commissario Straordinario Ater

Il termine “periferia” è talmente generico che mantiene ormai solo il senso originario di luogo “emarginato”. Fuori dal centro, al di là del margine. Ma l’emarginazione, che connota le periferie, non ha più un diretto riferimento alla condizione fisica di essere al di là del margine (della città), ma ha un’origine complessa nella quale gli aspetti economici, sociali e ambientali sono prevalenti. I confini delle periferie corrono nel corpo delle città. Non solo ai suoi margini, ma anche nei tessuti più recenti, ancora non integrati nel corpo urbano. Le “periferie” urbane e le sacche degradate dei centri storici sono i luoghi in cui la crisi sociale si salda con la crisi ambientale. La città assimila le parti nuove con tempi che si misurano in generazioni. Il riscatto delle periferie è un fenomeno continuamente in atto. Basta solo una buona politica per accelerare positivi processi di recupero.

di Franco Ferrarotti
Sociologo

Nel corso degli ultimi settant’anni ho avuto la fortuna, e goduto dell’immeritato privilegio, di visitare e soggiornare, non da turista ma da semplice convivente, tra regioni e popoli del pianeta, tuttora in maggioranza e pur tuttavia considerati “extra-comunitari”, indigeni, primitivi, combustibile passivo a tal punto che solo da una fiammata esterna, forse l’opera di missionari o di sanguinari conquistadores, potevamo attenderci l’uscita da un’inerzia millenaria.Se mi do un’occhiata alle spalle, mi rendo conto che, più per curiosità che per un deliberato progetto “scientifico”, nel corso di alcuni decenni ho visitato di persona e ho studiato, con risultati talvolta positivi, il mondo periferico: le borgate, i borghetti e le baracche di Roma, la “corea” di Milano e la “falchera” di Torino, le favela di Rio, le poblacione del Cile, le barriada del Venezuela e del Perù, le villamiseria argentine, gli slum e le blighted area di Los Angeles, New York, Detroit e Chicago, non dimenticando la miseria nei paesi del “socialismo reale”, dalla Romania alla Polonia e all’Ungheria. Oggi, alcune intuizioni circa la funzionalità dell’emarginazione povera rispetto ai quartieri ricchi, per non parlare dei “magnaccia” della miseria (i poverty pimp) risultano ampiamente confermate. La periferia non è più periferica. Ma la nuova realtà post-urbana stenta a emergere. Quando anche la progettazione e il “rimodellamento” degli aggregati periferici privi, come recita il linguaggio burocratico, “di funzioni sociali pregiate”, abbiano trovato la soluzione migliore, resta in piedi il problema dell’esclusione sociale. Temo che la generosa proposta di un “rammendamento” di Renzo Piano non sia sufficiente.

Ritorniamo a dove eravamo rimasti. Dopo decenni di sostanziale stasi e di intoppi burocratici per il recupero delle aree periferiche, in AR 111 veniva descritto l’intervento del Dipartimento Politiche delle Periferie, Sviluppo Locale, Formazione e Lavoro con un barlume di speranza per la riqualificazione periurbana attraverso la riformulazione e lo studio degli aspetti tecnico-economici dei vari piani di intervento (avviati già nel 1993 con i PRU). Tuttavia, la recente soppressione del Dipartimento e redistribuzione delle sue funzioni tra il Dipartimento di Urbanistica e il Dipartimento Turismo, Formazione e Lavoro, operata lo scorso ottobre dalla Giunta, si è rivelata a tratti discutibile: se a livello politico può aver avuto una sua ragion d’esistere (condivisibile o meno), a livello di pianificazione urbanistica ha lasciato più di un dubbio sul reale beneficio di questa operazione, aprendo un dibattito sull’effettivo disinteresse verso le zone più disagiate e sul rischio di protrarre ulteriormente una stagione di immobilismo in cui, come spesso accade, le principali “vittime” sono i cittadini.

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