di Domenico Cecchini
Architetto e urbanista
All’inizio del secolo, nel loro volume L’epoca delle passioni tristi, gli psichiatri francesi Miguel Benasayag e Gérard Schmit ci spiegarono come e perché dall’idea futuro come promessa si sia passati a quella del futuro come minaccia. Un passaggio che ha generato molto dolore, soprattutto tra i giovani, immigrati e no, e soprattutto nelle periferie metropolitane. Da allora l’esperienza del dolore non è diminuita. È aumentata, di molto. Il modo in cui ci occupiamo degli spazi pubblici delle nostre città non può prescindere dalle cronache che viviamo.
La lunga strada verso la definizione di un piano per la gestione degli spazi comuni e del verde urbano
Una città accessibile, giusta e accogliente è la risposta alle trasformazioni che stanno coinvolgendo la nostra società, nella quale il lascito della crisi economica si va a sommare alla crescente mobilità della popolazione e alla paura suscitata dai flussi immigratori e dalla minaccia terroristica. In questo contesto, la disponibilità di spazi pubblici di qualità, disponibili a tutti i cittadini, rappresenta una risorsa cui attingere per promuovere comunicazione e interscambio, creazione di comunità e senso di appartenenza, in un circolo virtuoso che può costituire una delle vie d’uscita alle complesse dinamiche sociali urbane. Il ruolo degli spazi pubblici è stato però purtroppo troppo spesso sottovalutato - a Roma come altrove in Italia - dalle politiche degli ultimi decenni che non ne hanno saputo e voluto cogliere l’importanza, demandandone frequentemente ai privati la progettazione e la gestione, rinunciando così a una regia e a una pianificazione che sapessero leggere la città come una rete, un organismo unitario e non una semplice sommatoria di parti. Non mancano esempi positivi, che però ormai risalgono a un passato non troppo recente: pensiamo al programma Centopiazze avviato dalla giunta Rutelli a partire dalla metà degli anni Novanta,