di Filippo Lambertucci
Ricercatore presso Sapienza Università di Roma
È in atto da anni una delle campagne archeologiche più vaste che abbiano interessato la città da lungo tempo, sia per estensione sia per profondità; eppure se ne sente poco parlare, se non in concomitanza di rinvenimenti - effettivamente eccezionali - che continuano a sorprendere pubblico ed esperti. Si tratta dei saggi e degli scavi compiuti funzionalmente alla realizzazione, lenta e faticosa, della nuova linea C della metropolitana cittadina che si appresta ormai ad entrare, tra mille difficoltà e polemiche, nel corpo vivo dell’enorme centro storico di Roma. Non serve ricordare quanto quest’ultimo sia il più formidabile deposito di strati, tesori e documenti non solo dell’antichità più remota, ma anche di fasi più recenti, cresciute una sull’altra senza smettere di riscrivere un palinsesto che stiamo ereditando e sul quale abbiamo il dovere di scrivere la nostra pagina di contemporaneità. Tuttavia questo potenziale enorme stenta a entrare nel sentire comune come una risorsa a cui poter e dover attingere a piene mani per una fruizione evoluta e aggiornata di una città che spesso sembra più oppressa dal peso del suo stesso patrimonio piuttosto che alimentata da esso. Delizia degli archeologi, la stratificazione della città
è più spesso croce per tecnici e amministratori, che la vedono preferibilmente come un intralcio incontrollabile alla programmazione lineare di tempi e costi, quindi foriera di complicazioni, ritardi, aumenti di costo e varianti che finiscono per occupare le cronache dei giornali con le polemiche sui ritardi o sui duelli tra i soggetti attuatori e gli enti di tutela. I “cocci”, come si sa a Roma, sono una dannazione per ogni cantiere ed è naturalmente impensabile che un’opera pubblica della portata di una linea di metropolitana non debba misurarsi attivamente con un contesto così denso; tuttavia storicamente l’approccio è stato normalmente improntato a un dualismo oppositivo in cui si fronteggiano le esigenze contrattuali dell’esecuzione dell’opera e le “sorprese”, gli ostacoli opposti dai rinvenimenti, in una logica per cui il cronoprogramma dell’opera è sostanzialmente “disturbato” da malaugurate interferenze. La storia breve e modesta del trasporto sotterraneo di Roma dimostra ampiamente quanto la prospettiva sia stata strettamente orientata alla prevalenza del “male necessario” rispetto a decine di occasioni perse per sempre. La linea B, la prima, inaugurata nel 1955 dopo lavori iniziati già sul finire degli anni ’30, viene realizzata con tecniche rudimentali se rapportate alla natura dell’opera e del contesto; lo scavo infatti è stato prevalentemente a trincea aperta e quindi estremamente superficiale portando al completo sbancamento di ampie zone anche in contesti archeologici delicatissimi. Le foto di cantiere, ad esempio, della realizzazione della stazione Colosseo e di Termini, mostrano al tempo stesso l’irripetibile eccezionalità di reperti e contesti venuti alla luce e l’irrimediabile perdita di un’opportunità che non si è voluta cogliere, in assenza di una sensibilità non ancora maturata nei confronti del patrimonio. Al Colosseo la galleria si incunea tra l’Anfiteatro Flavio e l’Arco di Costantino, correndo con la testa della sua volta in mattoni a poche decine di centimetri al di sotto del manto stradale, e il fabbricato della stazione, costruito a cielo aperto dopo aver sbancato l’intero fianco del colle sotto l’attuale largo Agnesi, si richiude in uno spazio men che modesto dietro il paramento del cosiddetto muro del Muñoz. Eppure questa stazione potrebbe offrire l’impagabile sorpresa di emergere improvvisamente dal sottosuolo proprio di fronte a uno dei monumenti più popolari e visitati, godendo al tempo stesso di un punto di vista privilegiato costituito dalla terrazza superiore, quando invece, alla realtà dei fatti attuali, i viaggiatori sono mortificati sia dall’inadeguatezza dell’architettura sia dalla trascuratezza a cui è condannata.
L’enorme scavo per la realizzazione - ancora una volta a cielo aperto - della stazione metro B di Termini, pur nella sua vastità che portò alla luce un importante complesso di ville e terme, si rinchiuderà in se stesso, senza poter offrire all’esperienza del sottosuolo la gratificazione di attraversare gli strati profondi della città. Allo stesso modo la linea A, completata nel 1980, realizzata in parte con tecnologie più aggiornate e a una quota più profonda di presuntiva cautela, minimizza il suo incunearsi negli strati cittadini con anonime stazioni e altrettanto disinteresse, volendo fare pietosa eccezione per i modesti lacerti di muro malinconicamente abbandonati in uno dei corridoi della stazione Repubblica.
Si può fare diversamente? Certamente la sensibilità verso il patrimonio e le modalità della sua conservazione e coinvolgimento in contesti più attivi hanno fatto apprezzabili progressi ed è anche possibile valutarne alcuni risultati nello specifico del confronto con le infrastrutture di trasporto. La metropolitana di Atene ha aperto già diversi anni fa una strada di sicuro interesse, anche se di risultati inferiori alle possibili aspettative; in molte delle nuove stazioni che punteggiano un centro storico paragonabile per ricchezza a quello romano si è fatto lo sforzo, dove possibile, di coinvolgere nella spazialità della stazione la permanenza in situ di frammenti e rinvenimenti. Bisogna riconoscere che gli allestimenti in genere penalizzano in angoli secondari i ritrovamenti o mettono in scena una modalità museale per lo più superata, anche se non priva di qualche trovata più adatta a interpretare uno spazio che non sarà mai e non deve essere un museo. La realizzazione in corso in questi anni della metropolitana di Salonicco, in gran parte sovrapposta al tratto urbano della via Egnatia, ha portato alla luce un prevedibile giacimento di testimonianze storiche ma, allo stesso tempo, ha alimentato una mobilitazione propositiva dell’opinione pubblica locale che ha preteso la revisione dei progetti delle stazioni in funzione di un adeguato apprezzamento delle opportunità offerte dai ritrovamenti. In fondo non bisogna poi andare troppo lontano per trovare un altro esempio che promette risultati interessanti; a Napoli, la nuova stazione Municipio di interscambio tra linea 1 e 6, progettata da Álvaro Siza ed Eduardo Souto de Moura, viene definita con enfasi giornalistica “il più grande scavo archeologico d’Europa”, ma è soprattutto un modello di adattività del progetto ai continui e ricchissimi ritrovamenti che hanno permesso di ricostruire un pezzo importante di storia cittadina. Pur avendo attraversato un numero considerevole di varianti, il progetto si trovava in un contesto operativo in cui la variante era in qualche modo parte del gioco e, di volta in volta, ha aggiunto un elemento in più alla ricchezza dell’allestimento e al coinvolgimento dei rinvenimenti conservati in situ, arricchendo un progetto inclusivo e allargato il cui assetto definitivo si potrà verificare nel 2019 con la consegna completa.In questa direzione stava cominciando a muoversi anche Roma, allorché all’approssimarsi della tratta esterna della linea C ai margini del centro storico, la Soprintendenza Speciale per il Colosseo e l’Area Archeologica di Roma ha ritenuto di prescrivere al realizzatore, Consorzio Metro C Spa, una revisione del progetto standard di linea già impiegato per la tratta da Pantano a Lodi, in funzione di una maggiore contestualizzazione ai luoghi che la linea attraverserà a partire dalla stazione di San Giovanni. Al gruppo di ricerca della Sapienza, guidato da Andrea Grimaldi e dal sottoscritto, è stato perciò chiesto di reinterpretare gli spazi interni della nuova stazione di San Giovanni in funzione della valorizzazione del contesto storico-archeologico.Bisogna premettere che lo scavo della stazione di San Giovanni si è rivelato un ricchissimo giacimento di nuove e importanti acquisizioni non solo per la ricostruzione della storia della città, ma anche per la conoscenza di Roma prima di Roma, un’opportunità di eccezionale rarità per gli archeologi, considerato che gli scavi in ambiente urbano hanno difficilmente raggiunto quote così profonde. In effetti lo scavo, che raggiunge i 27 metri di profondità rispetto all’attuale piano di campagna, ha attraversato strati storici in tutta la sua altezza restituendo uno spaccato cronologico di rara completezza, prezioso soprattutto per l’ampia copertura documentaria e per l’eccezionalità dei rinvenimenti in sé. Si tratta quindi di un grande racconto che la stratigrafia restituisce ininterrottamente dai livelli più superficiali fino al piano profondo delle banchine, attraversando età moderna, Medio Evo, età imperiali e repubblicane fino alle età più arcaiche, testimoniate da frammenti di lavorazione litoide, e poi l’acqua e i boschi primigeni. È dalla volontà di rendere percepibile lo straordinario impaginato di queste stratificazioni che ha preso vita l’idea di un progetto di narrazione e di immersione fisica nella storia, resa tangibile e misurabile da un dispositivo di allestimento giocato su una grafica avvolgente incrostata di reperti autentici. Potendo agire solo sull’involucro interno e con minime variazioni spaziali in quanto intervenuto in corso d’opera già molto avanzato, il progetto si muove su due registri narrativi fondamentali: il primo è quello della grafica, che ha reso le pareti “parlanti”, il secondo è quello di strategici allestimenti speciali che riportano reperti, selezionati tra i circa 40 mila ritrovati, al livello dove sono stati rinvenuti, accendendo singole storie nel flusso della Storia.
La struttura del racconto si esplica secondo modalità visive e allestitive che interpretano la natura specifica del luogo di transito, caratterizzato da velocità e modalità di attenzione che non sono ovviamente quelle proprie di un museo o una mostra; quindi il progetto grafico e museografico si muove su registri di alta percettibilità, di veloce comprensione, di comfort visuale e di integrazione al way finding propri di uno spazio ipogeo ad alta frequentazione. Alla scala grande dei segni fatti per la velocità è integrata però la possibilità, per chi voglia, di fermarsi ad approfondire parti della narrazione; si può così passare distrattamente in velocità oppure farsi attrarre da una teca o un allestimento opportunamente disposti in zone di calma, dove poter leggere in tranquillità una didascalia o contemplare un pezzo.
La sfida è stata perciò quella di elaborare un concetto museografico che, invece di misurarsi con le condizioni proprie di una normale esposizione museale (come ad esempio la giusta distanza, il giusto tempo di attenzione, una condizione di calma e volontaria predisposizione, un’illuminazione che risponda ai soli criteri dell’ottimizzazione della messa in scena), deve piuttosto confrontarsi con le condizioni di un vero e proprio impatto fisico con una massa di passeggeri che hanno per prima preoccupazione quella di prendere un treno.
Ciò comporta naturalmente la necessità di aggirare gli equivoci di una musealizzazione impropria e incongrua per confrontarsi con i caratteri propri di un ambiente, i sotterranei di una metropolitana, dalle prerogative generalmente poco apprezzate dal pubblico per la generale inquietudine generata dalla mancanza di illuminazione naturale, dall’affollamento, da un’immagine generale di degrado inospitale a cui i passeggeri romani sono particolarmente avvezzi.
È stato perciò necessario ripartire da una ridefinizione il più possibile radicale del quadro esperienziale offerto, agendo sulla formazione di un’atmosfera avvolgente in grado di contrastare le abituali reazioni di disagio associate a questi spazi. Perciò il tema dell’attraversamento della storia, che è il filo conduttore dell’impianto narrativo, si materializza letteralmente in un sistema di segni che investe tutte le pareti verticali; partendo dal vincolo della conservazione del sistema di rivestimento già contrattualizzato, costituito da pannelli in vetro retrosmaltato bianco, si è trasformato mediante la conversione in vetro stratificato con pellicola grafica interposta il supporto neutro ed uniforme nel grande foglio del racconto, che è impostato su tre registri di comunicazione.
Il primo, il più immediato e simbolico è lo “stratigrafo”, un segno grafico verticale concepito come un vero e proprio profondimetro spaziale e temporale; sulla sua scala graduata è possibile leggere contemporaneamente l’effettiva profondità in metri relativamente alla superficie e, allo stesso tempo, una scansione cronologica segnata da fatti notevoli per la città e per il luogo circostante riportati all’altezza dello strato archeologico fisicamente corrispondente. La dimensione tipografica dei segni diviene non solo parola ma anche figura stessa nel tappezzare le pareti dei vari livelli con un gioco scalare dei caratteri che guida con una precisa gerarchia la scansione delle epoche e l’incrostarsi delle date e dei fatti. La percezione del dipanarsi dello stratigrafo è aumentata dall’impiego di un codice colore che associa a ciascuno degli strati intercettati una specifica tonalità, che restituisce con immediatezza, anche al passante più distratto, la sensazione del variare delle condizioni al suo procedere in verticale; ogni epoca ha un suo cromatismo e il messaggio viene ribadito sia nei grandi caratteri che le segnalano, sia nel successivo registro di comunicazione, quello delle immagini.
Il secondo registro è infatti costituito da un repertorio di immagini che riproducono i ritrovamenti salienti per ogni strato; ingrandite a scala gigante, trattate graficamente e marcate dal colore caratteristico dello strato, le immagini irrompono nello spazio sollecitando l’osservatore a un punto di vista inedito sul reperto, a volte anche microscopico nella realtà, ma che si impone così a un confronto anche distratto e superficiale, costituendo - nella peggiore delle ipotesi - un avvolgente sottofondo visivo, come accade ad esempio soprattutto in banchina, dove l’atmosfera preistorica è affidata all’evocazione della fitta vegetazione primordiale.
Un terzo registro della narrazione parietale è infine costituito dall’individuazione di ambiti tematici destinati a raccontare specifiche storie emerse dagli scavi e dalla loro comprensione; la stratificazione intercettata, come si è detto, si è rivelata di eccezionale densità e feconda di piccole ma significative storie annidate nei suoi strati. In questo modo si è voluto spiegare, ad esempio, l’avventurosa storia del continuo riciclo di frammenti architettonici e scultorei reimpiegati in fabbriche diverse attraverso epoche lontane, oppure la curiosità della vita quotidiana in un’azienda agricola di età imperiale, dove si faceva coltivazione delle prime pesche arrivate a Roma o, ancora, le tecniche di gestione idraulica dei terreni o la produzione di manufatti per l’edilizia.
Grandi scritte riportano i titoli dei temi in specifiche zone offrendo la chiave di lettura ai numerosi reperti che sono stati raccolti assecondando queste tematiche in apposite teche incorporate nel sistema della parete vetrata. Il grande racconto non si esaurisce infatti nell’allestimento parietale, dal momento che la stratificazione offre anche un’imperdibile opportunità; per un caso fortunato, infatti i piani orizzontali aperti al transito del pubblico, cioè il piano atrio, appena sotto la superficie stradale a -5 metri, il piano corrispondenze, cioè di scambio con l’adiacente stazione della linea A, a circa -15 metri e il piano profondo delle banchine, che raggiunge i -27 metri, coincidono quasi perfettamente con livelli significativi della sequenza storica. Questo ha suggerito di rendere apprezzabili in maniera più tangibile le tracce di questi strati, mediante l’allestimento di piccole zone caratterizzate da una materialità diversa e una minima variazione spaziale concessa nell’ambito di spazi già strettamente preordinati.
Mediante l’impiego di un rivestimento in lamiera nera grezza e un disegno che allude allo sforzo dello scavo nella materia, al piano atrio è allestito un ambito che racconta lo scavo e i suoi strati insieme alla pratica comune del riciclo di frammenti e ornamenti nel rinascere continuo di murature nuove. Al piano corrispondenze, che si trova esattamente alla quota dei rinvenimenti più significativi e conosciuti, costituiti dal grande complesso di attrezzature idrauliche e agricole di una grande fattoria di epoca imperiale alle porte della città, il trattamento del pavimento e la giacitura di un’ampia porzione di allestimento ricostruiscono l’esatta giacitura di un grande bacino idrico regolato da complesse opere idrauliche e di bonifica che vengono qui illustrate dal ricco repertorio di canalizzazioni e regolazioni messo in mostra grazie al copioso numero di reperti disponibili. In banchina, infine, corrispondente a un livello di età preistorica caratterizzata da una presenza più rarefatta dell’uomo, il tema prevalente della natura lussureggiante ritorna in carico al rivestimento parietale, caratterizzato da temi vegetazionali che intervengono provvidenzialmente ad accompagnare il passeggero con una visione tranquillizzante proprio in corrispondenza dello spazio ipogeo più profondo e angusto.
Non saranno pochi a sorprendersi della quantità di storie che la stazione saprà raccontare sperando di attenuare la cattiva fama degli affollati spazi ipogei, ma sarà tuttavia una parte del potenziale esprimibile su scala urbana dal nodo di transito nel suo complesso. Come si è accennato il progetto di allestimento è intervenuto solo in un momento successivo a una procedura già in stato molto avanzato di approvazione e realizzazione e ha potuto incidere di fatto solo sulle finiture interne, conservando l’assetto spaziale e tecnico precedentemente configurato, ma è facile immaginare quale potrebbe essere il risultato di un coinvolgimento attivo dei ritrovamenti e della morfologia urbana circostante in un sistema che voglia farsi carico di intervenire come agente di riqualificazione attiva.
Nel quadro di un programma di ricerca condotto ormai da alcuni anni su problematiche e potenzialità dell’integrazione tra mobilità pubblica, in particolare sotterranea, e contesto storico della città stratificata, il nostro gruppo ha potuto evidenziare l’enorme risorsa che potrebbe scaturire da una revisione radicale della modalità di interazione dei due soggetti, oggi ancora troppo improntata allo scontro frontale, fallimentare per definizione, a causa di un quadro procedurale certamente rigido ma anche di una visione politico-culturale che avrebbe bisogno di maggior coraggio e consapevolezza.
Senza entrare qui nel piano strettamente procedurale, che potrebbe senz’altro essere reso più snello e adattivo e perciò, forse, in grado di non consumare necessariamente risorse e tempi supplementari, sul piano propriamente culturale la chiave consiste molto semplicemente nell’allargare lo sguardo all’intorno in cui si interviene e riconoscerlo come parte in causa di un sistema di relazioni in grado di attivare dinamiche urbane nuove, in cui la città riconosce se stessa anche nei suoi strati più profondi e dimenticati, riportati a essere parte di un connettivo urbano continuo e integrato.
Ad esempio, nel caso di San Giovanni, il fabbricato della stazione della linea C si accosta a quello esistente della linea A, realizzando certamente la funzionalità dello scambio passeggeri, ma rimangono però entrambi sostanzialmente inerti rispetto al grande e problematico nodo urbano in superficie che è piazzale Appio. La congestione del traffico ha reso, nel tempo, inospitale lo spazio ai passanti e quasi impercettibile la presenza delle stesse Mura Aureliane, senza considerare il rapporto inesistente con la vicina basilica laterana che pure dà il nome alla stazione. Sarebbe in questo caso sufficiente riconoscere al sistema degli spazi di atrio delle due stazioni, quello sotto il livello stradale, lo statuto di piazza per poter già vederne attivate le potenzialità: solo gli spazi così come sono occupano un’ampia superficie che lambisce un’ampia corona di edifici circostanti perdendosi però nelle labirintiche ristrettezze degli economici sottopassi della linea A. Eppure la quota di questi atri coincide con il piano della porta Asinaria, tanto vicina quanto dimenticata, ma anche con il piano interrato delle numerose attività commerciali circostanti, come l’edificio Coin; non servirebbe molto per mettere a sistema una rete di spazi aperta, luminosa, incoraggiante, che con pochi interventi potrebbe aprirsi direttamente sul parco di via Sannio e soprattutto sulla piazza di porta Asinaria, risvegliandola dalla prigionia di una tutela che ad oggi non può che segregarla, ma che potrebbe tornare a nuova vita come passaggio privilegiato verso la basilica; allo stesso modo potrebbero essere coinvolti gli interrati di alcuni edifici, che potrebbero arrivare ad aprirsi direttamente su quella che potrebbe essere una grande piazza coperta, protetta dal traffico, come potrebbe analogamente rimanere pedonale l’attuale area di cantiere, ormai sottratta da anni al flusso veicolare e quindi facilmente convertibile in un significativo spazio pedonale e verde, tanto necessario per un intorno così congestionato.
Si tratta di azioni di sistema, che tendono a vedere la continuità della città attraverso la sua storia e la sua stratificazione fisica, nella convinzione che la valorizzazione di cui si parla molto passi prima di tutto attraverso il riconoscimento e il coinvolgimento au pair degli spazi storici nei circuiti della vita contemporanea.
Ora che la tratta urbana della Linea C sta finalmente entrando in centro storico le occasioni da cogliere si fanno più urgenti e sembrano incoraggianti i segni di una maturata sensibilità; gli eccezionali e inaspettati ritrovamenti alla stazione di Amba Aradam sono al centro del dibattito per la loro sistemazione; ma sono i prossimi appuntamenti con le stazioni di Fori Imperiali e Venezia che dovrebbero divenire teatro di una performance all’altezza dell’eccezionalità dei luoghi.
La strategia dovrebbe essere ancora una volta quella dell’ascolto attento dei luoghi, della loro inclusione, in una prospettiva di integrazione globale; la stazione di piazza Venezia, ad esempio, è l’epicentro di un irripetibile concentrazione di fatti urbani di eccezionale qualità e importanza. A partire dai sondaggi preventivi, che hanno permesso di portare alla luce le sale dei cosiddetti Auditoria di Adriano, lo scavo della stazione potrebbe mettere a sistema una rete fittissima di luoghi che aspettano solo di essere attivati.
I sotterranei del Vittoriano, gli strati urbani intorno alla via Lata sotto la piazza, gli Auditoria, i sotterranei del palazzo delle Generali, i depositi della basilica Ulpia sotto l’inizio di via dei Fori Imperiali, l’area del foro di Traiano con la colonna e, volendo, le stesse domus sotto Palazzo Valentini giacciono praticamente tutti alla stessa quota, 4 o 5 metri sotto il piano stradale attuale e potrebbero senza difficoltà essere uniti in una spettacolare piastra di percorrenza continua sotto il caos del traffico di piazza Venezia.
La stazione perde in questo modo il suo carattere di intruso tecnico e, mescolandosi con attenzione, si incunea tra le stratificazioni rendendole parte di una rete di traiettorie che non distinguono tra città contemporanea e perimetri protetti, tra dato tecnico e patrimonio architettonico; anche la copertura degli Auditoria può uscire dai limiti del dispositivo tecnico e dell’ipocrisia del “minimo impatto”, per proporre invece una presenza eloquente e dimostrativa, coerente con un’idea di città in grado di continuare a riscrivere se stessa.
Attraversare la storia è il modo per renderla viva, la mobilità è valorizzazione, e sappiamo quanto Roma ne abbia bisogno. Il gruppo di lavoro per lo studio museografico della stazione San Giovanni fa capo al laboratorio di rigenerazione Re-Lab della Sapienza ed è guidato dai prof. Andrea Grimaldi e Filippo Lambertucci; hanno partecipato alla progettazione gli architetti: Livio Carriero, Amanzio Farris, Valerio Ottavino, Leo Viola, Samuel Quagliotto; il progetto grafico è stato elaborato dal prof. Carlo Martino, con Sara Palumbo e Delia Emmulo.
A. Grimaldi e F. Lambertucci guidano un gruppo di ricerca che si occupa da anni della rigenerazione del patrimonio urbano attraverso la messa a sistema con le reti della mobilità; alcuni primi risultati sono pubblicati nel volume Sottosuoli Urbani, La progettazione della città che scende, Quodlibet, 2015. Le potenzialità di una rete che innervi la città storica con stazioni propulsive per i contesti in cui intervengono sono documentate in un’ampia collezione di tesi di laurea sui casi di Venezia, Chiesa Nuova, Colosseo-Fori Imperiali, San Giovanni, Circo Massimo, etc.
Per un approfondimento sui ritrovamenti della stazione San Giovanni sono fondamentali: R. Rea, Cantieristica archeologica e opere pubbliche. La linea C della metropolitana di Roma, Mondatori Electa, Milano 2011, e R. Egidi, F. Filippi, S. Martone, Archeologia e infrastrutture. Il tracciato fondamentale della Linea C della metropolitana di Roma, Bollettino d’Arte, Volume Speciale 2010, Ministero per i beni e le attività culturali, 2010.
Immagini fornite da Filippo Lambertucci