«Io vado a prendere i bambini a scuola e tu fai la spesa anche per me. Io innaffio le piante in agosto, tu pensi al mio gatto quando sono in ferie». Un tempo erano gesti di buon vicinato, oggi è il co-housing, che da qualche anno anche in Italia sta prendendo sempre più piede. Ma perché funzioni occorre creare «una cultura della condivisione». Di questo si occupa Liat Rogel, ricercatrice israeliana, che da tre anni ha dato vita a HousingLab, associazione milanese creata allo scopo di diffondere le buone pratiche nell’ambito dell’abitare sociale e collaborativo.
«Siamo nati tre anni fa - racconta Rogel - da un lato cerchiamo di far crescere e sviluppare la domanda di co-housing, dall’altra raccogliamo l’adesione di persone che dicono di voler vivere diversamente, di voler sperimentare l’abitare collaborativo e li accompagniamo in questo percorso, dalla fase embrionale fino alla realizzazione e anche dopo».
A volte si tratta di gruppi già costituiti, altre è HousingLab a radunare singole richieste.
«In ogni caso - continua Rogel - il percorso prima di arrivare al co-housing è fondamentale, perché è in questa fase che si testa la motivazione e predisposizione di ciascun individuo. C’è chi lascia subito perché prende atto che l’abitare collaborativo non corrisponde alle proprie esigenze e aspettative. E soprattutto ci si conosce, nel bene e nel male».
HousingLab, per questo, è anche molto attiva a organizzare incontri sul tema, dà vita a eventi come l’edizione italiana di Experimentdays, che si tiene a Milano in autunno, e offre visite guidate alle realtà più interessanti.
«In generale i casi che funzionano meglio sono quelli che partono da operazioni dal basso, ovvero dalla costituzione del gruppo, arrivando solo successivamente a individuare il terreno o la casa giusta. Le difficoltà che solitamente si incontrano servono a rodare i futuri co-houser».
Altro dato interessante è legato alle motivazioni che spingono le persone a scegliere il co-housing. Inizialmente lo si fa quasi sempre pensando alle opportunità di risparmio, ma il vero valore aggiunto riguarda principalmente le relazioni umane e l’incidenza di queste sulla qualità della vita dei partecipanti.
«Le opportunità di risparmio ci sono innanzitutto nella fase iniziale - osserva Rogel - specie se si sceglie di seguire lo sviluppo passo passo, magari a partire dal terreno. Poi, quando il co-housing diventa realtà, le possibilità vanno dalla vicina di casa che si offre di occuparsi dei bambini alla condivisione di oggetti di uso comune, vestiti compresi, ma il plus è ampliare le relazioni sociali, costruire legami forti e contribuire alla difesa dell’ambiente cercando di limitare gli sprechi».
Altro luogo comune da sfatare, è che il co-housing sia per giovani.
«Assistiamo sempre di più a un mix anagrafico - continua la ricercatrice - che rispecchia poi la società. È un fenomeno trasversale. Oggi la composizione dei nuclei familiari, l’aumento dei single che solo a Milano rappresentano il 50% della popolazione, le difficoltà per i giovani a trovare un impiego così come l’allungamento della vita media, fa sì che le esigenze abitative si siano molto modificate. Così se le coppie si avvicinano al co-housing magari in vista di futuri bambini da far crescere in spazi condivisi - quelli che un tempo erano i cortili -, ci sono gli anziani che scelgono l’abitare collaborativo per sentirsi più sicuri e meno soli. E magari c’è il single che può permettersi solo il monolocale, che nel co-housing non deve rinunciare a invitare gli amici a casa grazie agli spazi condivisi per poter organizzare cene e feste».
Capita, dunque, di frequente che il co-housing tenga conto delle mutazioni demografiche in misura di gran lunga maggiore rispetto ai costruttori tradizionali.
«In questo senso è incredibile come le imprese che pur lamentano la crisi, siano ferme alla progettazione per nuclei familiari composti da mamma, papà e due figli. La soluzione che offre il co-housing è più corrispondente alle nuove istanze della popolazione rispetto al mercato, solitamente lontano anni luce da questo tipo di flessibilità e sensibilità».
«Eppure i costruttori - lamenta Rogel - non riescono ancora a considerare il co-housing come un’opportunità anche economica per loro stessi. A mio parere sbagliano; ma proprio per questa ragione, cerchiamo di promuovere il più possibile l’abitare collaborativo, sperando che la domanda arrivi al mercato e che il tempo ci dia ragione».
Non a caso, HousingLab collabora in maniera continuativa con architetti ma anche con commercialisti e avvocati. «Vorremmo creare un mercato delle soluzioni abitative non tradizionali, mettendo assieme gli attori in grado di mobilitarlo».
A Milano, una delle novità più significative, è quella della Fondazione Housing Sociale, che ha lanciato un progetto in via Cenni con appartamenti a canone calmierato con patto di futuro acquisto. «Una sorta di leasing che rappresenta una soluzione innovativa molto interessante».
Dal mondo cooperativo è nato invece il progetto Zoia, altra esperienza lungimirante del capoluogo lombardo.
«È uno degli esempi migliori tra l’altro di come co-housing e housing sociale si possano incontrare. L’idea è del Consorzio Cooperative Lavoratori che, nello stesso nucleo abitativo, ha messo insieme spazi per il co-housing, sia in vendita sia in locazione, ad abitazioni sociali riservate a persone con disagio. Una forma inedita in Italia di pensare all’housing sociale offrendo a chi vive ai margini la possibilità di integrarsi, senza creare ghetti destinati a scaturire in situazioni problematiche».
L’altro aspetto interessante del progetto Zoia è che propone spazi in locazione a tariffe agevolate a designer, scenografi, fotografi e, più in generale, ai creativi, in cambio di servizi per la comunità come laboratori e corsi per i residenti.
E, dopo anni di latitanza da parte di politica e istituzioni, qualcosa si sta muovendo pure nelle amministrazioni locali.
«Di fronte all’emergenza abitativa finalmente il tema sta entrando nell’agenda politica. C’è sicuramente un interesse, qualcosa sta cambiando. Se non altro, credo sia ormai un dato acquisito il fatto che a chi ha bisogno di un tetto non si può dare come risposta solo la “casa popolare tradizionale”».
«Le Amministrazioni - continua Rogel - si stanno rendendo conto che esperienze come il co-housing portano alla riqualificazione di intere zone, oltre che rispondere in maniera più attuale alle esigenze della popolazione. Mi sembra che almeno qui a Milano si vada proprio in questa direzione. Situazioni che prima faticavano a legittimarsi, occupazioni comprese, ora trovano attenzione da parte della pubblica amministrazione. C’è una disponibilità al dialogo tutta nuova, almeno a parlarne. Poi mancano perfino gli strumenti legislativi e i tempi sono lunghi».
Dalla teoria alla pratica, Rogel vive l’esperienza del co-housing in prima persona in via Scarsellini, sempre nel capoluogo lombardo.
Lì tutto è partito da una piattaforma digitale. «Un anno prima di trasferirci in un immobile che era ancora in costruzione abbiamo dato vita a un gruppo online, una sorta di social network di condominio, che ha avuto un grande successo contribuendo a creare un senso di comunità prima ancora di abitare fianco a fianco. In un palazzo con cento famiglie, conoscerne trenta fa già una bella differenza».
In via Scarsellini, ci sono due sale condominiali che sono aperte al gioco libero dei bambini e nelle quali si organizzano corsi di fitness, gruppi d’acquisto ma anche cene e aperitivi.
«Io sono israeliana e secondo me c’è un dato relativo proprio al carattere degli italiani rispetto al co-housing: da un lato tendono naturalmente a creare relazioni familiari, a dare fiducia, e questo per me che ho i miei parenti lontani è un grande risorsa. Dall’altro sulle regole siete un po’ irregolari, la gestione degli spazi comuni, dalle scale all’ascensore alle sale condivise, tende ad essere un po’ anarchica. E invece l’esperienza dimostra che funzionano solo se le regole su come utilizzarli sono davvero condivise. In Italia si tende ad aspettare che la norma sia calata dall’alto, per poi lamentarsene o fregarsene; lo spirito del co-housing è l’esatto contrario: la norma la si scrive insieme e si fa di tutto per rispettarla. È questo il primo passo di ogni buona convivenza».