Prima un complesso per la mattazione, poi un possibile incubatore di attività, Oggi uno spazio pubblico parcellizzato con problemi di gestione.
Il Mattatoio di Testaccio non è un mero esempio di riqualificazione urbana, il Mattatoio di Testaccio è un’entità a sé stante nel patrimonio pubblico romano, vestigia d’architettura industriale e preziosa risorsa, la cui conversione e gestione sono state (e sono tuttora) oggetto di dibattito e discussione.
Tutto cominciò quando, alla fine del XIX secolo, l’allora Amministrazione decise di demolire e trasferire altrove le strutture preposte alla macellazione, situate nell’emiciclo dell’attuale Piazza del Popolo, spinta non solo dalla volontà di procedere a un nuovo impianto stradale lungo il Tevere, ma anche dalla vicinanza del complesso al fiume (con il conseguente inquinamento delle acque causato dagli scarichi) e dall’inadeguatezza strutturale rispetto alle esigenze della Capitale. La proposta, inserita nei programmi urbanistici della città, venne confermata nel Piano Regolatore del 1883 e affidata a Gioacchino Ersoch, al tempo Direttore della Divisione III (Edilità e Architettura) del Comune di Roma. Per il nuovo insediamento fu scelta un’area a ridosso delle Mura Aureliane, nella zona del Testaccio, contando su una superficie complessiva di oltre 8 ettari. Fu inoltre prevista l’edificazione di un quartiere multifunzionale, con edifici industriali e residenze per la classe operaia.
Per Ersoch, un fattore di grande importanza fu la possibilità di ragionare su un terreno spoglio, poiché gli avrebbe permesso di impostare il proprio lavoro con maggiore libertà. Il mattatoio venne dunque concepito con capannoni a pianta regolare ripetuti in serie, tetti a due falde, tecnologia mista in laterizio, pietra e ferro. La scelta di materiali, impianti e disposizione dei vari elementi costitutivi fu figlia della volontà di creare un complesso capace di conciliare, in maniera bilanciata e armonica, le esigenze di diversa natura (lavorative, sanitarie, strutturali e architettoniche). I lavori degli stabili per la mattazione del bestiame e del padiglione destinato alla pelanda dei suini avvennero tra il 1888 e il 1891, con un risultato finale che, tuttavia, non si rivelò così distante dalle costruzioni precedenti, perdendo in fretta l’etichetta di progetto originale e lungimirante inizialmente affibbiata. Nel tempo, a causa della velocità con cui le nuove scoperte e le innovazioni scientifiche facevano capolino nella realtà dell’epoca, il Mattatoio di Ersoch manifestò infatti un certo grado di inadeguatezza e una relativa necessità di rinnovamento, pur rimanendo uno straordinario esempio di architettura industriale, tra le migliori nella Capitale, con una struttura mantenutasi complessivamente efficiente per oltre un secolo. Da allora iniziò una cronologia di operazioni di manutenzione e modifica motivate non solo da quanto già affermato, ma anche dai progressi compiuti nei trasporti e nella lavorazione della materia prima, dalla crescita demografica e dal conseguente aumento del consumo di carne.
Gli interventi più rilevanti si registrarono nella prima metà del Novecento, con la costruzione dell’edificio dei frigoriferi nel 1912 (inizialmente escluso da Ersoch) e con l’introduzione all’interno del complesso della via tra la Pelanda e il volume adibito a serbatoio idrico nel 1924. Questa strada venne rimodellata e dotata di pensiline sostenute da pilastri, dando così origine ai famosi “rimessini”.
Il punto di rottura con il passato coincise con il trasferimento delle attività di mattazione, nel 1975, all’interno del Centro Carni nel quartiere Prenestino; una decisione a cui fece seguito un lungo dibattito su cosa fare della struttura del Testaccio. Per i successivi vent’anni vennero abbozzati una serie di progetti e di tentativi di valorizzazione immobiliare (mai portati a termine), che prevedevano un ingresso di liquidità per mezzo della concessione ad attori privati di alcune porzioni dell’area. Fortunatamente, il Comune di Roma strappò il complesso dalle mani della speculazione privata, un’azione che scacciò di fatto una progettazione misera. Parallelamente, alcune comunità etniche e gli storici vetturini romani fecero dell’ex Mattatoio un uso “alternativo”, in maniera più o meno autorizzata, andando man mano a occupare lo “spazio ombra”, ossia le porzioni interstiziali, schermate e marginali: si trattò del primo processo di creazione di un luogo dal carattere identitario all’interno di un’area dismessa e in fase di riqualificazione. Con il passare del tempo, vi si insediarono anche altre realtà e istituzioni ufficiali, fino ad arrivare al 1992, quando la Facoltà di Architettura dell’Università di Roma Tre sancì con il Comune di Roma un importante accordo per adibire ad aule i padiglioni lungo via Manuzio e quelli sul lato destro di via Franklin. Una data importante per l’ex Mattatoio, poiché avrebbe potuto aprire degli scenari di sviluppo sicuramente interessanti, ma che tuttavia non cancellava l’iter seguito fino a quel momento: un’assegnazione frammentaria e disgiunta degli spazi, specchio di una visione d’insieme profondamente latitante.
Nemmeno il processo di pianificazione del quadrante Ostiense-Marconi, avviato nel 1995 dall’Amministrazione capitolina, riuscì a soverchiare lo stato dell’arte, sebbene avesse come chiaro obiettivo la riqualificazione dell’intera superficie mediante il recupero di aree verdi, servizi pubblici, attrezzature e infrastrutture, ma anche attraverso l’inserimento di importanti funzioni urbane (tra cui quelle universitarie, appunto) e l’introduzione di nuove localizzazioni terziarie e di servizi su scala municipale e urbana.
Da quel momento, le aree dell’ex Mattatoio e del Campo Boario furono oggetto di una serie di interventi per la riconversione dei vari padiglioni, con il Comune di Roma, proprietario dell’immobile, l’Università Roma Tre e l’Accademia di Belle Arti a fare da attori principali. L’idea alla base era intraprendere un importante e delicato percorso di trasformazione e restauro (a oggi non ancora completato) mediante operazioni che innalzassero il valore qualitativo degli stabili senza però intaccarne il carattere fortemente storico, il tutto nell’intento comune di dare vita a uno spazio per le arti, la cultura e la condivisione del sapere interdisciplinare. Per quanto riguarda la parte architettonica e progettistica, i soggetti coinvolti furono cinque: gli studi lc-architettura, Insula Architettura e Ingegneria, Carmassi Studio di Architettura e gli architetti Stefano Cordeschi e Antonio Pugliano. Il primo, Luciano Cupelloni, venne incaricato sia dall’Accademia di Belle Arti per realizzare la propria nuova sede (padd. 37A e 37B), sia dal Comune di Roma per trasformare i padiglioni 9A e 9B nel M.A.C.R.O. Testaccio e i padiglioni 19, 35 e 36 nella Città dell’Altra Economia. Roma Tre, tramite il Dipartimento di Scienze dell’Architettura, ha realizzato un progetto preliminare per le aree universitarie, per poi affidarsi per la progettazione definitiva di alcuni padiglioni agli architetti Cordeschi e Pugliano (rispettivamente pad. 8 e 4) e allo studio Insula Architettura e Ingegneria, in collaborazione con il Prof. Francesco Cellini (padd. 7, 2B, 14, 15A, 15B, 15C, 16).
Un’operazione di recupero consistente, che pure ha portato a singoli interventi di recupero di qualità, con un esborso importante (si parla di circa 35 milioni di Euro secondo i dati forniti in occasione della conferenza “Ex Mattatoio di Testaccio - Un bene non comune” organizzata da Insula Architettura e Ingegneria), ma che nella realtà dei fatti ha manifestato quanto nulla fosse cambiato rispetto al passato, con gli spazi suddivisi tacitamente ed equamente tra usi pubblici (gli ex impianti di mattazione) e occupazioni private (il Campo Boario). Una serie di azioni intraprese singolarmente dalle varie entità, affidatesi a professionisti del settore, che tuttavia non sono mai stati coordinati per operare in coerenza con una visione complessiva di sviluppo dell’intera area che avrebbe dovuto essere prodotta dall’Amministrazione.
Probabilmente, l’unico momento in cui questo spazio pubblico ha nutrito delle importanti speranze rispetto al futuro a breve e medio termine è stato la Biennale dei Giovani Artisti dell’Europa e del Mediterraneo, tenutasi tra il maggio e il giugno del 1999 a Roma, proprio nell’ex Mattatoio di Testaccio. La manifestazione si è rivelata una parentesi più che positiva, capace di portare una ventata di freschezza e un fiume di eventi e persone, riservando particolare attenzione non solo all’architettura (con workshop, conferenze e mostre sviluppate dall’Inarch Lazio), ma anche innescando cambiamenti strutturali permanenti (come la connessione tra l’ex Mattaoio e il Campo Boario, fino a quel momento separati) e temporanei (come la trasformazione dei “rimessini” in aree per la ristorazione, un esperimento divertente e al tempo stesso efficace). Nel complesso, la Biennale del 1999 è stata una delle esperienze meglio riuscite e più lungimiranti dell’allora Giunta Rutelli. Quel periodo, infatti, ha lasciato intravedere un barlume di speranza per il presente e il futuro dell’area, per la prima volta paragonabile a una “start-up primordiale”, a un incubatore di attività culturali dal grande potenziale su scala urbana. Purtroppo, una volta giunta al termine, anche quella luce fioca si è spenta, con il conseguente ritorno alla situazione di partenza. Ma per quale motivo?
Ricercare le cause del fallimento di uno spazio pubblico è già di per sé un’impresa difficile. Per il caso dell’ex Mattatoio di Testaccio, lo scenario di base in cui indagare è ancora più complesso e articolato perché l’analisi delle dinamiche di gestione porta al coinvolgimento di ben 12 diverse realtà ufficiali: l’Università Roma Tre, la Città dell’Altra Economia, l’Accademia di Belle Arti, M.A.C.R.O. La Pelanda, Ararat, M.A.C.R.O. Testaccio, il Villaggio Globale, il Centro anziani, la Sovrintendenza, la Scuola di Musica, il MiBACT e la Casa della Pace; il tutto senza contare gli storici vetturini.
Una delle poche certezze è legata alla genesi di questo progetto, partorito come uno spazio sfaccettato ma al contempo unitario che, secondo gli accordi iniziali, avrebbe dovuto essere coordinato e diretto da un’unica entità centrale. Tuttavia, sebbene gli intenti siano rimasti inalterati nel tempo, a conti fatti l’amministrazione unica si è trasformata da obiettivo in utopia, con i vari spazi assegnati a diversi Dipartimenti comunali, dimostratisi incapaci o restii a cooperare per il bene comune, come si evince dalla mancanza di dialogo e dal fioccare di iniziative tra loro scollegate. Se a tutto questo si somma che, sempre secondo quanto affermato durante la conferenza, circa il 75% dei fondi messi a disposizione per la struttura sono stati destinati alle operazioni di riqualificazione, lasciando solo un quarto del budget per l’amministrazione e il coordinamento centrale, allora si deduce con maggiore semplicità quanto, con questi presupposti, l’idea di un respiro e di un traguardo comuni fosse pressoché irrealizzabile.
L’ex Mattatoio è un luogo dall’identità storica e architettonica fortemente spiccata ma che, quasi per un gioco del destino, vive in una situazione di frammentarietà a livello gestionale e nelle finalità, riflessa anche nella mancanza di un filo conduttore in grado di tenere legati tutti i suoi componenti. Non esiste né un logo unitario che lo contraddistingua o accomuni le attività svolte al suo interno, né un sito internet in cui vedere com’è composta e strutturata questa risorsa pubblica. Addirittura i nomi delle varie realtà mostrano un certo grado di distacco o (addirittura) di disinteresse rispetto all’ubicazione e alla precedente destinazione d’uso; solo M.A.C.R.O. Testaccio e M.A.C.R.O. La Pelanda ne portano con sé un rimando. Chi vuole fare un giro nel complesso, rimane spiazzato nel constatare l’assenza di indicazioni e di info point, notando inoltre lo squilibrio nell’utilizzazione dei vari spazi: durante la settimana “vive” solo la Facoltà di Architettura, che però serra i battenti durante il week-end, quando invece si popola la Città dell’Altra Economia. E chi vuole andare al M.A.C.R.O. Testaccio? Solo dopo le 16 e in periodo di mostre, sennò trova chiuso.
Ultime ma non per importanza, le problematiche legate al grado di fruizione dello spazio pubblico e di accessibilità alle strutture. La mancanza di un iter e di una programmazione unitaria si risente anche nelle aree comuni. Vi è infatti una forte lottizzazione delle zone all’aperto, penalizzate dalle “barricate” create dalle singole realtà presenti, preoccupate di perdere o di vedere danneggiato il proprio suolo di pertinenza. Sebbene con la Giunta Marino si sia registrato qualche piccolo miglioramento (alcune recinzioni sono state abbattute), permane comunque un clima di degrado. Secondo i dati riportati durante la conferenza, l’80% della superficie è infatti inaccessibile o delimitata da recinzioni (della lunghezza complessiva di 1.739 metri).
A questo si aggiunge la questione dei parcheggi, una tematica all’ordine del giorno dell’Amministrazione capitolina, come dimostrano gli interventi programmati per il recupero e la riconnessione del margine sud-est tra il complesso dell’ex Mattatoio e il Monte dei Cocci, con nuovi posti auto, pubblici e pertinenziali. A oggi, comunque, il problema rimane: durante la giornata, non è anomalo constatare episodi di sosta selvaggia in spazi non autorizzati esterni e interni alla struttura. Un fenomeno motivato sia dall’esiguità di posti auto in proporzione al numero di studenti dell’Università, sia dalla scarsa propensione dei cittadini all’utilizzo di mezzi pubblici, nonostante la zona sia ben servita dalle linee di trasporto. Paradossalmente, anche la rimozione di alcune recinzioni e la presenza dei cantieri per la pedonalizzazione interna hanno peggiorato le cose. La prima ha indirettamente lasciato più spazi liberi per la sosta incontrollata; la seconda, invece, ha portato all’abusivismo: di sera, alcuni parcheggiatori irregolari aprono le recinzioni dei cantieri, lasciando entrare e sostare i veicoli all’interno.
Una diapositiva poco confortante, di cui sono ben consapevoli i progettisti, a loro tempo chiamati in prima persona a sporcarsi le mani per fare di questo complesso per la mattazione un polo di condivisione del sapere. Come già affermato in precedenza, i buoni propositi non sono mai mancati, ma ciò che ha realmente incrinato la situazione sono stati la mancanza di dialogo e le carenze a livello amministrativo dei vari Dipartimenti incaricati. Secondo l’architetto Massimo Carmassi, «lo spettacolo inscenato quotidianamente nell’ex Mattatoio di Testaccio non è altro che un semplice riflesso di una condizione di profonda inadeguatezza e difficoltà nella gestione del patrimonio storico a livello nazionale. Lo stesso clima caotico che regna in ambito politico sta sempre più contaminando la gestione dei beni culturali a ogni scala. Tutti i musei o quasi si trovano in situazioni di precarietà, non in termini di opere, ma nei luoghi in cui sono ospitati. Lamentano un’amministrazione approssimativa, specchio della burocrazia italiana di matrice clientelare, incapace e senza fondi». Una confusione che ha interessato anche l’ex Mattatoio e la “sua” Pelanda, un edificio molto articolato, inizialmente concepito come spazio per laboratori e spettacoli teatrali, ma che a sua detta «oggi ospita attività che potrebbero essere tranquillamente svolte in un capannone di periferia, una condizione figlia di errori in termini di investimenti e di utilizzo delle strutture». Parole che lasciano filtrare malumore e scarse speranze sul futuro, pensieri condivisi anche dallo Studio Insula Architettura e Ingegneria. I progettisti, infatti, sono pessimisti sul domani, nonostante avessero mosso i primi passi con grande entusiasmo, reputando quest’esperienza «interessante e gratificante». Anche secondo loro, il nodo sta nell’amministrazione e nella mancanza di armi idonee per affrontare le problematiche in essere. Gli inizi sono stati convincenti, con la struttura affidata al Comune di Roma, abile nello stilare un buon PU sotto la Giunta Rutelli. Un dipinto interessante, dove spiccavano le figure dell’Università e dell’Accademia quali garanti per il bacino di utenza, ma che ha tuttavia risentito dell’incertezza che accomuna molti dei progetti gestiti dal Comune, nei quali secondo Paolo Orsini, «si fa edilizia senza sapere esattamente per chi». Sempre a detta degli architetti di Insula, «il concetto iniziale era convincente, poiché poneva al centro l’idea di un polo artistico poroso e fruibile su larga scala». Le problematiche sono insorte nella fase successiva, ovvero quando sarebbe stato necessario stilare un piano complessivo comune e non limitarsi ad assegnare i vari padiglioni ad altrettanti Dipartimenti del Comune. Questi, pur avendo previsto programmi validi, si sarebbero poi rivelati poco inclini sia nel creare una sinergia, sia nel ricoprire il difficile ruolo degli imprenditori.
Chi si spinge oltre le riflessioni sulla gestione, tracciando un quadro sullo stato dell’arte è l’architetto Cupelloni, evidentemente preoccupato di quanto avvenuto negli ultimi anni. «Non si doveva inventare granché. Sarebbe bastato apprendere seriamente da analoghi casi europei, di successo». Un fallimento che colpisce soprattutto i cittadini, in quanto veri fruitori di questa risorsa; una delusione legata «all’intermittente attività del M.A.C.R.O. Testaccio, al tradimento della mission della Pelanda, alla vera e propria lottizzazione politica della Città dell’Altra Economia con il conseguente uso improprio e talvolta dannoso di manufatti e spazi di particolari qualità». Se a questo si aggiungono «gli effetti collaterali legati all’azzeramento del progetto Comune/ACEA del “sistema reti” a opera della Giunta Alemanno», la mancanza di fondi dell’Università Roma Tre per completare la riqualificazione dei propri spazi di competenza e lo stallo in cui vive l’Accademia delle Belle Arti, che da anni, pur in possesso di parte dei mezzi finanziari, attende la consegna dei padiglioni occupati da “botticelle”, cavalli e varie attività, si può dunque dedurre quanto i ritardi, le inadempienze e le carenze siano un fardello sempre maggiore per questa importante risorsa a servizio collettivo.
E allora quale strada perseguire per tentare di invertire la rotta? Di fatto, l’assenza di un’entità centrale (dotata di poteri e strumenti) porta ogni soggetto a seguire le orme del passato, curandosi unicamente della propria enclave.
Molto difficile risulterebbe ripartire dal modello “condominio”, come proposto da Domenico Cecchini in occasione della conferenza “Ex Mattatoio di Testaccio - Un bene non comune”. Una scelta probabilmente inadatta al contesto, trattandosi di uno spazio per le arti fondato su ben altri (e più elevati) concetti culturali. Inoltre, se si considera che alcune realtà storiche qui radicate non sono ufficialmente riconosciute, risulta allora inattuabile persino l’idea di abbozzare una regolamentazione interna.
Affidarsi invece a soggetti esterni potrebbe essere una mossa azzardata o comunque non performante, data la forte complessità e frammentazione dell’area (a livello strutturale e organizzativo) e le difficoltà nell’identificare i giusti interlocutori nel marasma di figure istituzionali e Dipartimenti coinvolti nella gestione, quantomeno, per la parte di matrice comunale.
La cabina di regia, con a capo una diramazione di Roma Capitale in quanto proprietaria, rimane quindi l’unica opzione realmente vagliabile, magari auspicando l’ingresso di nuove funzioni capaci di attirare l’interesse di attori privati, una boccata d’ossigeno in termini economici e di idee per il rilancio.
Tuttavia, prima di parlare di gestione unitaria, già di per sé un miraggio, è necessario “sbrogliare” alcune situazioni che sono di ostacolo o rallentano la direzione ordinaria dell’ex Mattatoio. Sarebbe infatti opportuno trovare una chiave di volta per velocizzare i processi di decisione nelle realtà amministrate dai Dipartimenti di Roma Capitale. Un caso emblematico è quello del M.A.C.R.O. Testaccio, il cui impianto autorizzatorio prevede una direzione “dall’alto”, con un labirinto di passaggi intermedi vincolanti per ottenere l’approvazione definitiva. Un processo che allunga inesorabilmente le tempistiche burocratiche, già minacciate dagli stalli derivanti da eventuali cambiamenti politici al vertice. Servirebbe forse un progetto di management più snello, sulla scia di altre realtà europee analoghe, oggi fondazioni. A questa “palude gestionale” si aggiungono altri punti interrogativi, di natura prettamente logistica, tra cui quando trasferire le stalle dei cavalli dentro Villa Borghese.
L’Amministrazione Marino sta cercando di muovere qualche passo in avanti, dimostrando una ritrovata attenzione per questo spazio pubblico. Di recente è stata infatti approvata una delibera di Giunta per gettare le basi per la creazione di una “cabina di regia pubblica” formata da rappresentanti dell’Amministrazione capitolina a verifica e tutela degli obbiettivi e della gestione coordinata dell’area di Testaccio e, nella fattispecie, dell’ex Mattatoio. Inoltre, sono ora in fase di cantiere ben tre progetti di riqualificazione ereditati dalla precedente Giunta: con il bando per la sistemazione degli spazi pubblici centrali, dei ristoranti nei “rimessini” e per il Museo della Fotografia, la fase di riqualificazione si avvia dunque alla sua conclusione. Ma ancora una volta, senza un quadro programmatico e un piano di investimenti chiari e condivisi, senza un progetto culturale che fornisca un’impronta comune, non ci si può illudere di dare senso a uno spazio urbano tanto importante e complesso, con il serio rischio di vanificare nel nulla tutti gli sforzi profusi.
Si ringraziano gli architetti Massimo Carmassi, Luciano Cupelloni e Paolo Orsini per aver contribuito alla stesura dell’articolo.