A pochi mesi dall’inizio dell’operazione l’unico programma decollato è stato #Scuolebelle. Tuttavia la sua attuazione ha procurato una serie di difficoltà e lamentele dei dirigenti scolastici che non hanno potuto gestire direttamente i fondi per le opere ma si sono trovati di fronte a un ventaglio prestabilito di ipotesi di lavoro e restauro non sempre funzionali alle problematiche costruttive e tecnologiche della propria struttura.
Tuttavia in questo quadro ci sono anche tendenze positive. Secondo il rapporto Ecosistema Scuola di Legambiente, le scuole italiane che si avvalgono di fonti di energia rinnovabile sono aumentate, passando fra il 2008 e il 2013 dal 6,3% al 13,5%. L’80,8% degli edifici ha installato impianti solari fotovoltaici, il 24,9% impianti solari termici, l’1,6% impianti geotermici o pompe di calore e lo 0,4% impianti a biomassa. Infine il 9,6% utilizza un mix di fonti rinnovabili.
Da segnalare inoltre il protocollo d’intesa siglato lo scorso luglio fra Legambiente e l’Istituto Nazionale di Bioarchitettura (INBAR), volto alla riqualificazione sostenibile degli edifici scolastici. Questo accordo prevede un intervento pilota sull’Istituto di Viale Adriatico 140 nel Municipio III di Roma, la cui realizzazione risale agli anni Settanta. Oltre a opere di manutenzione ordinaria, su questa scuola saranno condotte una serie di azioni mirate al miglioramento delle caratteristiche dell’involucro e dei materiali di finitura. Il fine ultimo del protocollo è individuare uno standard replicabile e di qualità per i progetti di riqualificazione, un palinsesto di opere in grado di andare oltre i limiti di un intervento di solo miglioramento energetico. Secondo il presidente dell’INBAR, Giovanni Sasso, “l’adeguamento dell’edilizia scolastica può diventare l’occasione per integrare nel progetto anche valori propri della bioarchitettura”. Non si tratterà di una semplice installazione di pannelli fotovoltaici sulle coperture ma ci sarà un interesse sugli ambienti e sulla loro gestione ottimale, dalle aree all’aperto all’uso di materiali naturali, dalla tutela delle risorse idriche alla ottimizzazione del contributo solare passivo, prevedendo la partecipazione al progetto di alunni e docenti.
Dal punto di vista delle attrezzature per lo sport, in questo momento lo scenario romano è interessato da due grandi questioni: la costruzione del nuovo stadio dell’AS Roma e la conclusione delle opere previste per la Città dello Sport progettata da Santiago Calatrava in occasione dei Campionati Mondiali di nuoto del 2009. Se il primo è un progetto che dovrebbe prendere forma nel 2017, il secondo non è stato mai ultimato, versa in stato di abbandono e è al centro di discussioni e polemiche.
Lo stadio sorgerà al posto dell’Ippodromo di Tor di Valle, opera di alta qualità architettonica progettata da Julio Lafuente della quale si prevede la demolizione. Oltre ai fortissimi dubbi sulla cancellazione di uno dei capisaldi qualitativi del panorama della architettura di Roma moderna, desta preoccupazione la realizzazione dello stadio in un’area di elevato valore ambientale prossima al Tevere. Il concept dell’architetto americano Dan Meis trae ispirazione dal Colosseo, reinterpretandone le forme in chiave moderna: una struttura in vetro e acciaio che sarà in grado di ospitare fino a 50.000 spettatori, con un rivestimento in pietra e una copertura in teflon e vetro per riparare le tribune dalla pioggia. Una struttura non grandissima, quindi. Ma l’operazione stadio ne contiene un’altra ben più redditizia, la costruzione di tre grattacieli che porteranno la firma di Daniel Libeskind e saranno inclusi in un business park adiacente alla struttura sportiva. Nel piano spiccherà il Roma Village, luogo di intrattenimento per i tifosi con negozi, superstore e spazio multifunzionale per concerti ed eventi.
Tre sono gli attori principali dell’operazione: James Pallotta, Presidente della AS Roma, Luca Parnasi, costruttore e proprietario dei terreni, e il Sindaco di Roma Ignazio Marino, che ha il compito di valutarne la fattibilità e le conseguenze di ordine socio politico. La proposta è stata vagliata dal Campidoglio ricevendo pareri positivi ed è ora passata alla Regione Lazio, la quale ha 180 giorni a disposizione per esprimere un parere sul progetto definitivo.
Come accennato le posizioni della cittadinanza attiva su questa iniziativa sono molteplici e contrastanti. Un atteggiamento incoraggiante, fortemente condizionato dalla numerosissima tifoseria romanista, è legato al possibile indotto economico per la città in un momento di pesante crisi edilizia. Ma non è da trascurare l’aspetto speculativo di una operazione finalizzata anche al rialzo della rendita fondiaria della zona. A fronte dei pesanti investimenti infrastrutturali e urbanistici, è probabile che possano lievitare anche i canoni di affitto e acquisto immobiliare della zona, fino ai livelli del non lontano quartiere Eur.
Buona parte della cittadinanza ritiene invece questa opera disastrosa dal punto di vista naturalistico e al limite della legalità la trasformazione di una zona di verde protetto in area edificabile ove è previsto un elevato carico urbanistico.
Inoltre il quadrante della città che ospiterebbe l’intervento, tra la via Ostiense e il Tevere, è già molto compromesso dal punto di vista del trasporto pubblico e privato. Se non saranno previsti elevati investimenti sulla ferrovia Roma-Lido e sulle infrastrutture limitrofe, il livello di congestione derivato dal nuovo impianto rischierà di far collassare un’area già al limite delle proprie possibilità. Se da un lato sono stati previsti circa 7.000 posti auto all’interno della struttura, dall’altro non si è messa in conto la quantità di tifosi, una massa in grado di paralizzare interamente le reti del quartiere. Da quanto emerge dalle prime analisi del Comitato pendolari Roma-Lido sarebbero infatti necessarie più di due ore per far defluire un quarto dei tifosi previsti, anche aumentando il servizio a quattro treni all’ora negli orari non di punta. Sembra tuttavia che la AS Roma abbia stanziato 50 milioni di euro per l’estensione della linea B della metropolitana fino a Tor di Valle. Una scelta dettata dalla volontà del Campidoglio di consentire l’arrivo allo stadio con mezzi pubblici per almeno metà dei tifosi.
A livello ambientale invece un intervento di questo tipo potrebbe comportare elevati rischi paesaggistici e idrogeologici. A ridosso di un’ansa del Tevere, l’area prescelta ha destato molte preoccupazioni da parte delle associazioni ambientaliste, soprattutto poiché la zona è stata classificata come area di esondazione nel Piano di Assetto Idrogeologico della Regione Lazio ed è al centro di un progetto di valorizzazione dell’ansa del Tevere promosso dal WWF e approvato dal Municipio IX. Infine vanno considerate le problematiche di impatto nella qualità dell’aria connesse alla presenza del grande depuratore di Roma sud, localizzato a fianco del futuro stadio e assolutamente inamovibile.
Altro tema scottante è la Città dello Sport progettata da Santiago Calatrava cinque anni fa e rimasta allo stato di scheletro strutturale prossimo alla ruderizzazione. Il complesso sportivo era concepito come sistema di spazi interni contenuti in un volume a ventaglio, e spazi aperti con vasche per il nuoto e tribune. Sull’adiacente autostrada Roma-Napoli l’architetto aveva inoltre immaginato un ponte alto 70 metri simile a una grande vela.
Il ritardo nei lavori e il dietro front delle sponsorizzazioni private ne hanno bloccato il completamento, costringendo l’evento al Foro Italico e l’amministrazione capitolina a un finanziamento (si parla di oltre 256 milioni di fondi pubblici) su un’opera incompiuta. Oggi la piscina olimpionica è un monumento allo spreco dall’incerto destino, che suscita indignazione e sconcerto.
Completare l’opera con enormi costi aggiuntivi? Demolirla? Le ipotesi sono più d’una. Si è pensato a un ridimensionamento dell’impianto per renderlo utilizzabile per eventi pubblici e concerti ma la proposta più interessante sembra essere quella dell’Università di Tor Vergata. Sull’esempio del progetto dei Gardens by the Bay di Singapore, i ricercatori immaginano la realizzazione della più grande serra hi-tech esistente al mondo all’interno del grande scheletro. Questa soluzione potrebbe comportare un notevole risparmio rispetto a quanto pianificato per il progetto originario e il nuovo giardino botanico potrebbe diventare un polo di attrazione importante per il quadrante periferico nel quale l’opera è localizzata. La gestione sarebbe a carico dell’Università che avrebbe in cambio nuovi spazi funzionali alla didattica come laboratori di ricerca, aree espositive e un piccolo auditorium.
Il Campidoglio sta valutando le proposte ma sembra che l’ipotesi più accreditata sia il mantenimento della vocazione sportiva originaria e la conclusione delle opere previste. Con quali fondi però non è chiaro. Indipendentemente dalla strada che verrà intrapresa rimane il problema della mancanza di finanziamenti, in assenza dei quali Roma continuerà a sopportare la vergogna di un’altra triste pagina di cattiva gestione della cosa pubblica (di chi sono le responsabilità? Chi deve pagare per questo scempio?) e un rudere nel deserto, visibile a grande distanza, che danneggia paesaggio e collettività.
Se guardiamo al comparto dell’edilizia sanitaria il panorama non è molto diverso. La problematica principale è lo stato di conservazione delle strutture ma soprattutto l’inefficiente amministrazione del patrimonio infrastrutturale, tecnico-sanitario e del personale.
Il caso dell’Ospedale San Giacomo è esemplare di un problema gestionale che ha radici profonde. Tra il 2004 e il 2008 l’antico nosocomio è stato completamente ristrutturato con fondi regionali, per un importo di circa 20 milioni di euro. Durante questo quadriennio l’allora Presidente Piero Marrazzo ha inaugurato un nuovo day hospital, una farmacia completamente computerizzata e i padiglioni di gastroenterologia, pronto soccorso e rianimazione. Una serie di interventi che hanno trasformato il San Giacomo in una struttura di avanguardia riconosciuta a livello europeo. Tuttavia, poco dopo la nomina di Marrazzo a Commissario per la Sanità, la stessa Amministrazione regionale ha chiuso l’ospedale nell’ottica di risparmio e risanamento imposti dal Piano regionale di rientro sanitario. Prima si spendono 20 milioni in denaro pubblico in lavori di ristrutturazione, poi si chiude la struttura, con grave danno per i cittadini del centro storico e per pazienti cronici che devono fare riferimento a strutture molto lontane, con ulteriore aggravio di spesa per la pubblica amministrazione.
Oggi il San Giacomo versa in una condizione surreale, sospeso tra il massimo della modernità e l’inagibilità. Strumentazioni avanguardistiche che sarebbero utilissime se trasportate in altri centri ospedalieri sono invece abbandonate e la struttura tende a ritornare nello stato di fatiscenza che aveva prima dei lavori. Per tutto questo si continuano a pagare luce, acqua e vigilanza privata. Un paradosso nel paradosso, soprattutto alla luce della mancanza di posti letto negli ospedali e la inadeguatezza di tante strumentazioni sanitarie obsolete ma tuttora in uso.
Edoardo Bianchi:
La città, bene comune e “cosa” di tutti
Edoardo Bianchi / Presidente di Acer
Chiedono normative adeguate, procedure più snelle e incentivi, anche di natura fiscale, per rendere possibili interventi di rigenerazione e recupero. Sono i costruttori dell’Acer. «Vogliamo fare rigenerazione e manutenzione - spiega Edoardo Bianchi, presidente di Acer - ma per farlo serve una maggior chiarezza legislativa. Da parte dell’amministrazione e del governo”.
Qual è la sua idea di città? E quella di bene comune?
Non riesco a distinguere “città” e “bene comune”. Per me sono concetti coincidenti. La città infatti è il luogo dello sviluppo e della coesione sociale, dell’attrattività e della crescita economica e pertanto è “cosa” di tutti. È, quindi, indispensabile che la programmazione di medio e lungo periodo venga concepita in funzione di questi obiettivi e tenendo conto dei fenomeni che li condizionano. Insomma io vedo una città come bene comune in cui ogni singolo cittadino possa riconoscersi e trovi il contesto adeguato per sviluppare appieno la propria vita sociale, economica e personale.
Come si tutela l’identità culturale di una città? A quali costi?
Se parliamo di Roma, non è facile trovare un’unica identità culturale di riferimento. La nostra città ha alle spalle 2.800 anni di vita “ab urbe condita” ed è quindi la sommatoria delle varie epoche e stagioni che l’hanno caratterizzata, ognuna delle quali ha impresso la propria identità. Ogni quartiere, ambito urbano, monumenti, palazzo riflette momenti storici diversi e diverse concezioni dell’assetto urbano.
È pertanto doveroso che nell’ambito del processo di sviluppo della città le eccellenze del passato vengano preservate e valorizzate, anche con interventi manutentivi che li valorizzino e ne esaltino le caratteristiche.
Come si innova il paesaggio di una città millenaria?
Una città millenaria come Roma non può essere rinchiusa e blindata all’interno di una teca di cristallo, ma deve poter proseguire nel percorso di sviluppo necessario a rispondere alle sempre nuove esigenze, senza compromettere i “simboli” del passato.
Esiste o no un’emergenza abitativa? E se sì come risolverla, considerando che stime recenti contano oltre 200.000 alloggi invenduti?
Che esista un’emergenza abitativa che coinvolge le fasce più deboli dei cittadini non è frutto di valutazioni della nostra categoria, ma risultanza di indagini e analisi anche istituzionali. Il dato degli alloggi invenduti espresso nella domanda mi sembra sovrastimato, ma posso dirle con certezza di cognizione che la gran parte si riferisce al mercato libero, al quale non possono accedere i cittadini che esprimono l’emergenza in questione.
La risposta a questa esigenza deve essere diversificata. Le istituzioni devono farsi carico delle persone che esprimono un disagio molto elevato. Per gli altri non si può prescindere dall’intervento di operatori privati inseriti in programmi con agevolazioni pubbliche.
Più volte ANCE e ACER hanno indicato nella rigenerazione urbana il futuro del settore edilizio, cosa ritiene debba esser fatto affinché si avviino pratiche diffuse di recupero urbano?
Noi crediamo fermamente che la riqualificazione urbana costituisca per gli anni a vanire un importante settore di intervento delle imprese di costruzione. Gli interventi di rigenerazione possono essere sviluppati a totale finanziamento pubblico o con il coinvolgimento dei capitali privati. Per attrarre questi ultimi servono normative adeguate alla novità degli interventi, procedure snelle e incentivi, anche di natura fiscale.
La riqualificazione urbana passa anche per demolizioni e ricostruzioni? E se sì quali sono secondo lei i principali ostacoli burocratici da abbattere?
Certamente demolizione e ricostruzione sono strumenti che si rendono necessari soprattutto in presenza di costruzioni ad alto indice di degrado o inadeguatezza dal punto di vista statico. Non vedo ostacoli burocratici, ma una carenza di normative che rendano possibili questi complessi interventi.
Come pensa si debba procedere per dar finalmente corso all’alienazione delle aree militari? Il loro recupero potrebbe costituire un’opportunità per l’imprenditoria romana?
Sono assolutamente d’accordo che le aree militari dismesse, costituiscano una importante opportunità per la città e per la stessa imprenditoria. Però se ne parla da anni, ma a oggi la gran parte di queste aree non sono state ancora messe a disposizione dell’amministrazione comunale.
Cosa chiedete agli architetti? Quale può essere il loro ruolo per superare questo periodo di crisi?
Sono fortemente convinto che una stretta collaborazione tra architetti e costruttori sia lo strumento indispensabile per realizzare prodotti pregevoli architettonicamente e all’avanguardia in termini di fruibilità ed efficienza.
È un valore questo imprescindibile, soprattutto in un momento di crisi, perché consente di arricchire la città con opere di eccellenza e ai cittadini di usufruire di strutture all’avanguardia.